L’esperienza comunale e l’ordine costituito in Ottone di Frisinga

Presentazione per il XIII corso della Scuola di alti studi dottorali sul tema "Libertas/Libertates. Esperienze di libertà nelle città comunali e signorili" organizzato a San Gimignano (SI) dal 27 giugno al 1° luglio 2016 dal Centro di Studi sulla Civiltà Comunale della Deputazione di Storia Patria per la Toscana, dal Dottorato di ricerca in Studi storici delle Università di Firenze e di Siena e dal Comune di San Gimignano.

Testo e presentazione (pdf)

Nella Historia de duabus civitatibus e nei Gesta Friderici imperatoris Ottone tratta della “questione comunale” in maniera piuttosto marginale rispetto ad altri temi; nonostante ciò il rapporto tra la costruzione storica della Chronica, universale e onnicomprensiva, e le realtà comunali – innanzi tutto quelle italiane, emblema del particolarismo e “ribelli” nei confronti del potere imperiale e talvolta anche papale – è di notevole interesse, e anzi il fatto che l’esperienza comunale venga trattata con estrema sufficienza è già di per sé un elemento significativo. La visione politica di Ottone che possiamo dedurre dalle sue opere, incentrata sul recupero del più equilibrato ideale gelasiano della corresponsabilità dei poteri temporale e spirituale nella guida della Cristianità, non lascia grandi spazi a iniziative “anarchiche” quali sono agli occhi dell’autore i comuni italiani: il caso emblematico è rappresentato dalla Roma di Arnaldo da Brescia, in cui l’usurpazione delle prerogative del pontefice portarono al più totale disordine istituzionale e politico fino a sfociare nell’eresia, aspetti in apparenza distanti che nell’interpretazione di Ottone si legano in un unico affronto all’ordine costituito, risolto solo dall’intervento dell’imperatore. La ricerca affronta dunque il rapporto tra la storia universale di Ottone declinata nelle questioni di natura politica e queste nuove istituzioni, di cui l’autore, esponente di spicco dell’aristocrazia tedesca, nota con preoccupazione la portata eversiva al di là della formale sottomissione al potere imperiale.

Locandina e programma

Parlare di “ordine costituito” nell’opera di Ottone di Frisinga (1111/15-1158) significa andare al cuore della sua storia universale, che nell’unità del suo percorso individua una delle sue principali caratteristiche.

Non è il caso in questa sede di ripercorrere le vicende biografiche di Ottone di Frisinga, se non i tre elementi che definirono la personalità del nostro autore e che possiamo ritrovare come riferimenti per la sua storia universale: Ottone era il quinto figlio del margravio d’Austria Leopoldo III di Babenberg, una delle famiglie più importanti del regno di Germania e legata alla casa di Svevia, era fratellastro di Corrado III e zio di Federico I. Venne avviato alla carriera ecclesiastica, il che gli permise tra il 1128 e il 1133 di studiare a Parigi, cuore pulsante della cultura europea, quando maturò la vocazione monastica entrando nell’Ordine cistercense. Venne infine eletto nel 1137 vescovo di Frisinga, antica e prestigiosa sede episcopale, trovandosi coinvolto in prima persona nel dibattito sulla riforma della Chiesa inaugurata da Gregorio VII.

Questi tre elementi costitutivi della figura di Ottone sono visibili nelle sue opere, soprattutto nella sua storia universale, la Historia de duabus civitatibus o più semplicemente Chronica,1 ma anche nei Gesta Friderici Imperatoris,2 di cui compose, prima di morire nel 1158, solo i primi due libri.

Alla base della Chronica possiamo riconoscere un forte sentimento pessimistico dovuto all’incertezza dei tempi in cui Ottone vive, che porta l’autore a ritenere prossima la fine dei tempi, atteggiamento non più presente nei Gesta grazie alla renovatio federiciana. La miseria della condizione umana e i cambiamenti e le vicissitudini delle cose temporali rappresentano la costante della storia, che risulta quindi scritta «in modum tragediae».3

Le immagini utilizzate da Ottone per descrivere plasticamente questa situazione sono due: la prima è la rota fortunae, simbolo per eccellenza della mutevolezza della sorte e dell’impotenza dell’uomo di fronte al volgere della storia (in questa interpretazione naturalmente non lasciato al caso ma al giudizio divino).

L’altra immagine è la nave nel mare tempestoso, con un implicito riferimento all’arca nel diluvio e la ripresa di un’analogia agostiniana col legno della croce (cfr. De civitate Dei XV, 24-26).

L’incertezza che regna sulle cose umane è una condizione non eliminabile: solo nella vita eterna l’uomo potrà trovare la stabilità e la pace. L’appartenenza all’Ordine cistercense emerge con forza nel momento in cui Ottone individua nella vita monastica di “ritiro dal mondo” l’unica temporanea soluzione, anticipo della pace finale.

Accanto a questa prima ampia cornice si sviluppano gli altri due elementi costitutivi della Chronica, cooptati dalle due fonti che maggiormente influenzarono Ottone, il De civitate dei di Agostino e le Historiae adversus paganos di Orosio e le due rispettive chiavi di lettura della storia umana che permisero all’autore di sviluppare un percorso con al centro l’idea dell’impero universale che superasse la fine dello stesso Impero Romano d’Occidente.

La storia di Ottone è innanzi tutto la storia delle due città mistiche proiettate in chiave escatologica verso la meta finale, ovvero il momento in cui la storia acquista il suo vero significato.

Se la mutatio rerum riguarda le cose del mondo, questa divisione agostiniana trascende la storia “profana” ponendosi come una cornice ancora più esterna. Nella storia “che conta” di Agostino non c’è spazio per i regni, gli imperi, le vittorie e le sconfitte degli uomini, soprattutto delle civiltà pagane: queste vicende sono certamente coinvolte nel grande disegno divino, che non può avere nulla al di fuori di esso, ma non per questo si salvano dall’essere condannate perché espressione della civitas diaboli.

Ottone nella Chronica non rinnega mai questo schema, che anzi è ribadito con forza nell’ultimo libro in cui è descritta la distruzione finale della città terrena e la glorificazione della città di Dio alla fine dei tempi. Trattando della storia terrena Ottone cerca però di “ammorbidire” il rigido schema agostiniano, adattandolo alle trasformazioni dell’Europa medievale a cui il vescovo di Ippona non poté naturalmente assistere: da qui l’idea di un’unica civitas, la Chiesa, che comprende in sé tutti gli uomini che hanno ricevuto il messaggio cristiano, a prescindere che lo seguano o meno, e tutte le loro istituzioni, politiche e religiose.

Questa comunità, che Paolo Brezzi aveva ipotizzato come ideale anche di Agostino chiamandola civitas terrena spiritualis, vive sulla terra rivolta però ai beni eterni, in una mescolanza di buoni e cattivi.4 L’ordine che ha in mente Ottone, imprescindibile da Agostino, deve rappresentare però anche un “compromesso con il mondo” benché civitas Dei e civitas diaboli restino separate, come confermano il richiamo all’immagine evangelica del grano e della zizzania e l’VIII libro. Bisogna ammettere che Ottone su questo tema è tutt’altro che chiaro, cosa che non sorprende se pensiamo che la Chronica rappresenta un tentativo non semplice di sintesi fra tradizioni a quell’epoca spesso confuse e mistificate.

Dall’altro lato, l’idea di una “cristianizzazione” delle istituzioni politiche, trovò in Orosio all’inizio del V secolo una delle più riuscite espressioni, e la successione imperiale delle Historiae fu di grande aiuto nel lavoro di sintesi compiuto da Ottone. Nino diede inizio all’impero assiro e durante il suo regno nacque Abramo; la dignità imperiale passò ai Persiani, poi ai Greci al tempo di Alessandro Magno e infine ai Romani con l’impero di Augusto. Roma era destinata a essere l’impero più grande e potente, perché quando Cristo nacque in piena Pax Augustea la grazia di Dio poté passare dagli ebrei ai pagani, diffondendosi in tutto il mondo conosciuto. Come Orosio anche Ottone è convinto che l’impero romano con l’affermazione del cristianesimo si sia trasformato, occupando un posto nella Chiesa e rinunciando in parte alla propria universalità.

La Chronica non è un trattato di politica; ciò nonostante, una storia basata sul rapporto tra le due città mistiche e sulla continuità dell’istituzione imperiale non può escludere una riflessione di carattere politico, che Ottone sviluppa in un’apologia dell’ideale gelasiano della corresponsabilità dei poteri secolare e spirituale alla guida della Cristianità, entrambi parte di un’unica Chiesa.

Con la fine dell’impero d’Occidente il declino dell’istituzione imperiale, iniziata con l’Incarnazione, divenne sempre più marcato. La fine dell’impero d’Occidente viene superata da Ottone con la translatio interna all’impero romano, prima con un ritorno ai Greci, poi ai Franchi e infine ai Germani. Passato l’ultimo periodo di splendore con le dinastie carolingia e ottoniana, reso possibile dall’accordo e dalla collaborazione tra papi e imperatori, il potere spirituale acquistò sempre più forza a scapito del potere temporale, giungendo al punto più basso alla fine dell’XI secolo, con la scomunica di Enrico IV e con la guerra civile in Germania tra Enrico IV ed Enrico V, padre e figlio, «contra legem naturae»,5 per Ottone chiaro segno della prossima fine dei tempi.

Visto dunque l’ordine del mondo di stampo “agostiniano-gelasiano”, il quadro tutt’altro che rassicurante a cui l’autore approda all’inizio del proprio secolo è confermato dalla situazione italiana dell’epoca: non c’è quindi da stupirsi quando Ottone, che normalmente utilizza un linguaggio misurato tenendo una posizione obiettiva, si mostra invece fortemente contrariato dall’esperienza comunale italiana che ritiene, al pari dello scontro tra papa e imperatore, una grave eversione del giusto ordine costituito. Come ha osservato Gherardo Ortalli, Ottone «percepisce con chiarezza la novità rappresentata dai comuni in via di poderoso sviluppo, ma è una novità nella cui logica non sa o non vuole davvero entrare».6 Pur ammettendo una colpa dei sovrani tedeschi, per troppo tempo assenti dallo scenario italiano, la responsabilità delle turbolenze nella penisola è tutta delle città.

È però nel secondo libro dei Gesta che Ottone riserva le parole più dure nei confronti dei comuni, descrivendo l’ordinamento di queste realtà politiche ritenute e ritenendole estremamente arroganti, usurpatrici di diritti a scapito dei legittimi detentori, che sconvolgono l’ordine sociale affermando di vivere sotto la legge quando in realtà vige la legge del più forte di origine barbarica.

Queste città stanno al di fuori di quel “ordine costituito” descritto poco fa, cercando l’indipendenza dai poteri che reggono la Cristianità, guidati sì da uomini ma secondo un preciso disegno divino.

Nella Chronica caso ancor più grave è quello di Roma: oltre alle accuse di sacrilegio che sfociano in eresia, al comune capitolino Ottone imputa la pretesa di poteri che non gli spettano dal momento che dai tempi di Stefano II e Pipino il Breve il papa ha il legittimo diritto di regnare sull’Urbe. I romani hanno però una colpa ancora più grave, l’essersi appropriati del diritto di conferire il titolo imperiale ai sovrani tedeschi, altra prerogativa dei pontefici ed elemento importante del rapporto tra i poteri universali. Il senato romano tentò infatti una prima volta con Corrado III, inviandogli una lettera nel 1149.

Corrado non arrivò mai a Roma e non fu mai incoronato imperatore. Nel 1155 un nuovo tentativo fu fatto con Federico, che aveva da poco cinto la corona di re d’Italia e che stava marciando su Roma: la reazione che Ottone attribuisce al Barbarossa non lascia dubbi sul giudizio del vescovo di Frisinga: «tam superbo quam inusitato orationis tenore iusta indignatione inflammatus».7

Per Ottone il caso di Roma è certamente il più grave: centro della Cristianità e luogo in cui gli imperatori sono incoronati, alle già citate usurpazioni si aggiungono le più accese correnti a sostegno di una riforma radicale della Chiesa con al centro la figura di Arnaldo da Brescia, che Ottone non cita nella Chronica, probabilmente perché il predicatore in realtà non era particolarmente attivo nell’effettiva organizzazione del comune, mentre nei Gesta Arnaldo è assai più politicizzato. Arsenio Frugoni ha spiegato in questo modo tale differenza:

Nella Chronica, pessimistica meditazione del «senescens seculum», lo spettacolo di Roma ribelle al suo legittimo signore era stato accettato come uno dei tanti aspetti dell’«erupnosa mutabilitas» del mondo. Nei Gesta, che sono la storia della resurrezione imperiale, Ottone dispiegava una sensibilità più politica: se la ribellione tenta un dialogo temerario e fatuo direttamente con l’Impero – Ottone celebrerà presto l’accordo tra Impero e Papato – l’ispiratore di quella temerarietà sia soltanto Arnaldo, che giustamente verrà tolto di mezzo dall’autorità imperiale e papale.8

Nei Gesta infatti la figura di Arnaldo appare subito in primo piano, fin dal 1146; Ottone in quel periodo era in Italia per un’ambasceria presso Eugenio III. Arnaldo riappare poi nel secondo libro, durante la prima discesa di Federico in Italia nel 1155: del predicatore viene tracciato anche un breve profilo biografico, e l’autore non nasconde affatto la propria opinione negativa sul personaggio, tornando poi sulle vicende romane.

La posizione di Ottone è chiara, schierato con il papa e di conseguenza con l’imperatore che in quel momento erano in buoni rapporti. Oltre alle questioni di carattere dottrinale, sono imputate ad Arnaldo le stesse colpe che nella Chronica erano invece attribuite al più generico popolo di Roma, l’usurpazione delle prerogative temporali del papa e della Chiesa. A detta di Ottone, Arnaldo avrebbe affermato che non ci sarebbe stata salvezza per chierici e monaci proprietari di beni o privilegi, pretese anche superiori a quelle che solitamente avanzavano i movimenti pauperistici dell’epoca, che si limitavano alla lotta contro la simonia e le eccessive ricchezze del clero, più che contro il possesso in sé. L’anticlericalismo rivoluzionario attribuito ad Arnaldo era, dal punto di vista dell’autore, altrettanto nefasto quanto i mali che intendeva combattere.

La critica nei confronti del comune romano e del riformismo radicale di Arnaldo era certamente finalizzata anche a sollevare papato e impero dall’accusa di essere gli unici responsabili del disordine che regnava nella Cristianità del XII secolo, dato il nuvo slancio ottimistico che ispira i Gesta; ancora Frugoni afferma giustamente che certe accuse nei confronti del movimento arnaldino furono mosse per opportunità politica, perché

la sua riforma si svolge per istanze che non hanno nulla a che fare con i sussulti autonomistici di Roma e con il tentativo di realizzare la propria indipendenza dal Papato nella riconquista della pienezza dei diritti imperiali. Che uomini favorevoli alla soluzione imperiale potessero trovare appoggio contingentemente nella predicazione antipapale di Arnaldo, che fautori d’Arnaldo potessero sperare dalla soluzione imperiale l’allontanamento di un temuto compromesso del Comune col Pontefice, è ben verosimile. […] L’odio «politico» romano dunque contro l’«indebitum clericorum iugum» si trovò occasionalmente a coincidere, praticamente, con la polemica arnaldina.9

Fino a quando tra il papa e il comune continuarono a susseguirsi accordi-tregua, Arnaldo e i suoi poterono in qualche modo sopravvivere, nonostante le crescenti diffidenze verso i riformatori, fino a quando la discesa in Italia del Barbarossa e l’accordo con Adriano IV misero la parola fine a queste aspirazioni.

Presentazione

1. La mutatio rerum nella Chronica

«Sepe multumque volvendo mecum de rerum temporalium motu ancipitique statu, vario ac inordinato proventu, sicut eis inherendum a sapiente minime considero, sic ab eis transeundum ac migrandum intuitu rationis invenio. Sapientis enim est officium non more volubilis rotae rotari, sed in virtutum constantia ad quadrati corporis modum firmari. Proinde quia temporum mutabilitas stare non potest, ab ea migrare, ut dixi, sapientem ad stantem et permanentem eternitatis civitatem debere quis sani capitis negabit?»
(Chronica I, prol.)

«Cives ergo Christi non more reptilium salo mergi vel infidis eius procellis inprovide se credere, sed navi, id est ligno crucis, fide navigare manusque per dilectionem operando exercere in presenti oportet, ut per huius vitae viam ad portum patriae securi valeant pervenire.»
(Chronica VI, prol.)

«Omnes hii ab omni misero mundi rotatu, de quo supra disputamus est, seclusi, post senarii laboris perfectionem in veri sabbati pace eternam quietem pregustando positi.»
(Chronica VII, 35)

2. Le due città

«Cum enim duae sint civitates, una temporalis, alia Christi, Babyloniam hanc, Hierusalem illam esse katholici prodidere scriptores.»
(Chronica I, prol.)

«At deinceps, quia omnis non solum populus, sed et principes, exceptis paucis, katholici fuere, videor mihi non de duabus civitatibus, sed pene de una tantum, quam ecclesiam dico, hystoriam texuisse. Non enim, quamvis electi et reprobi in una sint domo, has civitates, ut supra, duas dixerim, sed proprie unam, sed permixtam tanquam grana cum paleis. Unde in sequentibus libellis non solum Romanorum augustis, sed et aliis nobilium regnorum regibus Christianis factis, cum in omnem terram et in fines orbis terrae exierit sonus verbi Dei, tanquam sopita civitate mundi et ad ultimum plene exterminanda, de civitate Christi, sed quamdiu peregrinatur, utpote sagena missa in mare, bonos et malos continente ceptam hystoriam prosequamur.»
(Chronica V, prol.)

3. Ottone e l’impero

«Vide iam regno decrescente ecclesiam tantae auctoritatis factam, ut etiam reges iudicet.»
(Chronica VI, 3)

«Duae, inquiunt, personae a Deo in ecclesia sunt constitutae, sacerdotalis et regalis. Quarum una Christi tractare debet sacramenta ac ecclesiastica spiritali gladio exercere iudicia. Altera gladium materialem contra hostes ecclesiae, pauperes ecclesiasque Dei ab incursione malorum defensando, sceleratos puniendo, ad secularia iudicia exerendum portat.»
(Chronica IV, prol.)

«Haec vero Deus ordinate et non confuse, id est non in una persona simul, sed separatim in duabus, quas nominavi, in ecclesia sua esse voluit.»
(Chronica IV, prol.)

4. I comuni italiani

«His diebus propter absentiam regis Italiae urbibus in insolentiam decidentibus.»
(Chronica VII, 29)

«Cumque tres inter eos ordines, id est capitaneorum, vavassorum, plebis, esse noscantur, ad reprimendam superbiam non de uno, sed se singulis predicti consules eliguntur, neve ad dominandi libidinem prorumpant, singulis pene annis variantur. Ex quo fit, ut, tota illa terra inter civitates ferme divisa, singulae ad commanendum secum diocesanos compulerint, vixque aliquis nobilis vel vir magnus tam magno ambitu inveniri queat, qui civitatis suae non sequatur imperium. Consueverunt autem singuli singula territoria ex hac comminandi potestate comitatus suos appellare. Ut etiam ad comprimendos vicinos materia non careant, inferioris conditionis iuvenes vel quoslibet contemptibilium etiam mechanicarum artium opifices, quos ceterae gentes ab honestioribus et liberioribus studiis tamquam pestem assumere non dedignatur. […] In hoc tamen antiquae nobilitatis immemores barbaricae fecis retinent vestigia, quod, \emph{cum legibus se vivere glorientur, legibus non obsecuntur.»
(Gesta II, 13)

5. Il comune romano: la lettera a Corrado III (1149)

«Appropinquet itaque nobis imperialis celeriter vigor, quoniam quidquid vultis in Urbe obtinere poteritis et, ut breviter ac succinte loquamur, potenter in Urbe, quae caput mundi est, ut optamus, habitare, toti Italiae ac regno Teutonico, omni clericorum remoto obstaculo, liberius et melius quam omnes fere antecessores vestri dominari valebitis.»
(Gesta I, 29)

6. Il comune romano: Arnaldo da Brescia

«His diebus Arnaldus quidam religionis habitum habens, sed eum minime, ut ex doctrina eius patuit, servans, ex aecclesiastici honoris invidia urbem Romam ingreditur ac senatoriam dignitatem equestermque ordinem renovare ad instar antiquorum volens totam pene Urbem ac precipue populum adversus pontificem suum concitavit.»
(Gesta I, 28)

«In tantum vero huius venenosae doctrinae coepit invalescere malum, ut non solum nobilium Romanorum seu cardinalium diruerentur domus et splendida palatia, verum etiam quedam de cardinalibus reverendae personae inhoneste, sauciatis quibusdam, a furenti plebe tractarentur.»
(Gesta II, 28)

  1. OTTONIS EPISCOPI FRISINGENSIS Chronica sive Historia de duabus civitatibus, ed. Adolf Hofmeister, Hannover, Hahnsche Buchhandlung, 1912 (Monumenta Germaniae Historica. Scriptores. Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum separatim editi, vol. 45, d’ora in avanti MGH SS rer. Germ.).
  2. OTTONIS ET RAHEWINI, Gesta Friderici I. Imperatoris, ed. Georg Waitz, Hannover, Hahnsche Buchhandlung, 1912 (MGH SS rer. Germ. 46).
  3. Ottonis Ep. Fr. Chronica, ep. dedic. ad imp. et ad canc. (MGH SS rer. Germ. 45, p. 3).
  4. Cfr. BREZZI Paolo, Una «Civitas terrena Spiritualis» come ideale storico-politico di Sant’Agostino, in Augustinus Magister (Congres International Augustinien, Paris, 21-24 septembre 1954), vol. 2, Paris, Etudes Augustiniennes, 1954, p. 915-922.
  5. Ottonis Ep. Fr. Chronica VII, 9 (MGH SS rer. Germ. 45, p. 319).
  6. ORTALLI Gherardo, Gli affanni della storiografia tra crisi e sviluppo nel secolo XII, in Renovación intelectual del Occidente Europeo (siglo XII). XXIV semana de Estudios Medievales, Estella, 14 a 18 de julio de 1997, Pamplona, Gobierno de Navarra Departamento de Educación y Cultura, 1998, p. 127.
  7. Ottonis et Rahewini Gesta II, 29 (MGH SS rer. Germ. 46, p. 136).
  8. FRUGONI Arsenio, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Torino, Einaudi, 1989, p. 47.
  9. Frugoni, Arnaldo da Brescia, p. 62.